XVII^
15/10/2014

Siamo andati a fare quattro passi, tra uno scroscio e l’altro di questo diluvio rateizzato che, più per consuetudine che altro, continuiamo a chiamare autunno. Abitiamo a Milano, nel quartiere di Porta Romana, fortunato…

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Siamo andati a fare quattro passi, tra uno scroscio e l’altro di questo diluvio rateizzato che, più per consuetudine che altro, continuiamo a chiamare autunno. Abitiamo a Milano, nel quartiere di Porta Romana, fortunato perché preso di mira da alcune griffe della moda più o meno importanti, cosa che in una qualche misura e dal lato puramente estetico lo ha salvato. Da Porta Romana siamo scesi per il corso omonimo fino alla Crocetta, dove sulla sinistra parte in senso inverso Corso di Porta Vigentina, che abbiamo percorso fino ad attraversare i bastioni e raggiungere l’incrocio tra la via Ripamonti e il Viale Sabotino, viale che ci ha riportati verso casa. Insomma un triangolo abbastanza acuto con il vertice a Crocetta, per chi sa di che cosa sto parlando. Per chi non lo sa si tratta di un triangolo di meno di tre chilometri che solca con i suoi lati una parte della vecchia Milano abbastanza popolare, ma non troppo, fatta di vecchi palazzi ottocenteschi e dei primi anni del Novecento. Fabbricati dotati di personalità, dignitosi, spesso belli, un insieme omogeneo con rare macchie di modernità edilizia, nel quale è facile riconoscere la Milano migliore, quella alla quale riesco ancora a voler bene. Questa è una città che ha ovviamente un centro storico importante e ben tenuto, seppure con qualche pecca, un centro nel quale i palazzi sono oggetto di cura e rispetto. Invece nella nostra passeggiata, lungo il pomeriggio di un sabato grigio stranamente orfano di pioggia, non abbiamo trovato che tristezza: una voragine che mesi fa ha conquistato l’onore delle cronache e che è tutt’ora una voragine con quattro cavalletti attorno, negozi chiusi, palazzi dai muri scrostati, sbrecciati, marciapiedi dissestati, i soliti scarabocchi sui muri fatti da gente che così crede di affermare la propria esistenza, tracce di lavori lasciati a mezzo, infissi malconci, avanzi di cantieri affacciati sull’assenza totale di attività. Non dovuta alla circostanza prefestiva, assenza giustificata, ma all’abbandono, per cui uno scavo fa in tempo a diventare una discarica, le transenne arrugginiscono, i cartelli si accatastano l’uno a impedire che si possa leggere l’altro. Ogni tanto uno stabile con evidenti segni di cura, una malinconica e rutilante vetrina oppressa dalla solitudine, quasi stonature in mezzo al degrado. Perché? Io e la mia compagna ce lo siamo chiesti, increduli: come fa la città più ricca d’Italia a presentarsi con un aspetto così triste, abbandonato e maltrattato? Non in una periferia estrema da ricostruzione post bellica, da boom economico, luoghi già degradati nelle intenzioni, come tutti i ghetti, come quasi tutte le periferie delle grandi città, ma in uno dei quartieri storici più intimamente milanesi? Siamo giunti alla conclusione che questa città non si ama, o meglio, non ama la propria anima, parla spesso della propria storia ma non la rispetta, salva e accudisce di sé solo quanto produce denaro. Una città che ha eletto qualche pezzo di sé al rango di biglietto da visita, lasciando il resto a se stesso. Una città a macchia di leopardo, come mi ha fatto osservare giustamente la mia compagna. Siamo rientrati a casa passo dopo passo, malinconicamente, nel nostro quartierino conquistato dalla moda, e quindi ricco di ristoranti, bar che cambiano arredamento e gestione ogni sei mesi, trattorie l’altro ieri mongole, ieri toscane, oggi fallite, e domani chissà, in una selva di menù che offrono pranzi a dieci euro, poi a nove e mezzo e domani a otto, cercando di rubarsi l’un l’altro impiegati di banca e ragazzine aspiranti modelle o bei tenebrosi indossatori da outlet. Qualche bel palazzo nuovo semi invenduto, una costellazione di agenzie immobiliari, una teoria di palazzi dignitosi e ben tenuti, di portoni costellati di cartelli “Vendesi” e “Affittasi”: a un chilometro in linea d’aria dal centro e dal Duomo, a forse tre dal rendering avveniristico e presuntuoso di ciò che la città vorrebbe essere, l’anima della Milano che fu orgogliosamente operaia e borghese si svende al miglior offerente. In attesa dell’EXPO.