XLIV^
14/10/2015

Non avrei voglia di scrivere, oggi, perché gli argomenti di cui parlare sono talmente asfissianti nella loro monotona ripetitività da farmene passare non dico la voglia, ma anche il …

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Non avrei voglia di scrivere, oggi, perché gli argomenti di cui parlare sono talmente asfissianti nella loro monotona ripetitività da farmene passare non dico la voglia, ma anche il senso dell’opportunità. Tutti gli argomenti meno uno, il più recente, che va colpendomi sempre più forte a ogni telegiornale: lo stillicidio di accoltellamenti a Gerusalemme. Non delle sue conseguenze, ma proprio della modalità stessa del suo attuarsi e ripetersi, dei suoi perché più profondi. Non ho gli strumenti per capire davvero, non credo che nessun cittadino occidentale li abbia. Il coltello, strumento antichissimo, feroce ed elementare. Che cosa c’è di più elementare della ribellione a ciò che viviamo come un sopruso, e che cosa di più feroce di un odio cresciuto in un secolo di oppressione? L’Europa, il nostro mondo, si pone questa domanda quando sente definire sbrigativamente terrorismo la rabbia disperata di ragazzi costretti a crescere come paria nel proprio paese? Sì, tecnicamente la definizione è esatta: chi ammazza indiscriminatamente delle persone solo perché appartenenti al popolo che lo opprime, senza nemmeno chiedersi se per tragica fatalità non stia addirittura privando se stesso di un possibile alleato, è un terrorista. Ma prima, inconsciamente forse, ma certamente, è un disperato costretto a vedere un futuro privo di speranza, privo di uno sbocco che non sia proprio l’annientamento, e l’annientamento del suo oppressore. I sociologi ci daranno certamente spiegazioni più dotte, il pragmatismo dei leader politici degli oppressi ci dirà che non è quella la strada, che si deve trattare; i leader degli oppressori diranno di avere il diritto di rispondere al coltello con pallottole e ai razzi artigianali, sciocchi nella loro presunzione, di rispondere con droni, elicotteri e carri armati. Si rende conto l’Europa, che vive l’arrivo dei profughi disarmati e affamati di tutto ciò che noi addirittura sprechiamo, e intendo proprio di libertà e democrazia prima ancora che di cibo, di quanta responsabilità abbia, di quanta colpa abbia per ciò che va accadendo in Palestina? E non sbaglio, dicendo Palestina, perché il moderno stato di Israele è una invenzione occidentale abitata prevalentemente da occidentali. Il sionismo è un fenomeno nato in Europa e vecchio di oltre un secolo, e che da oltre un secolo lotta per strappare la terra di Palestina a chi ci abita da millenni e colonizzarla, e che lo fa in nome di un diritto elargitogli da un dio, oltretutto ripetendo una antica storia di rivalità fra tribù ebraiche, intente a lottare una lotta fratricida fatta di potere e di spade insanguinate, avvenuta in quei luoghi più di tre millenni fa. Io non confondo gli ebrei con lo stato di Israele, e tanto meno con il sionismo, ma un ventenne palestinese è difficile che riesca a far sue queste distinzioni. E’ terrorismo, certo, ma tra due terroristi: uno con il coltello, con il proprio corpo disperato e senza speranza, l’altro con i carri armati e la possibilità di riconoscere al suo nemico il diritto che è stato arbitrariamente riconosciuto a lui. Magari restituendo i territori espropriati con la forza. L’Europa, largamente responsabile di questo stato di cose, ne parla con aria seria nei telegiornali, o scuotendo la testa con disapprovazione tra il primo e il secondo piatto, davanti allo schermo. Ha ancora senso scriverne qui, davanti a una tastiera e a un notes, al traffico della sera che scorre tranquillo oltre il vetro? Davvero non lo so, forse dovrei limitarmi a parlare della strabiliante notizia che Playboy non pubblicherà più donne nude. Non smette per rispetto, ma solo perché è “vecchio” come argomento. Nel telegiornale di questa sera il tempo dedicato alla notizia superava quello dedicato all’Intifada dei coltelli.