XXXV^
27/5/2015

E’ accaduto, ne parlavo in una bottiglia, credo nel novembre scorso, ed è accaduto: stiamo per salutare la nostra amata mansarda affacciata sui tetti di Porta Romana. Capisco che, come notizia buttata lì tra naufragi e guerre, non….

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E’ accaduto, ne parlavo in una bottiglia, credo nel novembre scorso, ed è accaduto: stiamo per salutare la nostra amata mansarda affacciata sui tetti di Porta Romana. Capisco che, come notizia buttata lì tra naufragi e guerre, non brilla certo per interesse o attualità sociale, ma oggi ho deciso di dare retta a un mio egoistico dispiacere personale e a una mia altrettanto personale fiducia, perché anche il nostro prossimo e socialmente insignificante trasloco può fornire lo spunto per alcune riflessioni. Se, come accade a noi, si ama una casa al punto da sentirla nostra, non nel senso della proprietà ma nel senso profondo di contenitore e parte della nostra esistenza, significa che è diventata nel tempo un elemento del nostro più intimo nucleo di affetti, che si è costruita, si è riempita del nostro gusto per gli oggetti, del nostro interesse per la lettura e per la musica, della nostra cultura, del nostro ammalarci e guarire e prenderci cura l’uno dell’altra e, insieme, cura di lei. Si potrebbe obbiettare che in tutte le case ci sono gli oggetti di cui chi ci abita si circonda, e che tutte riflettono il suo carattere. Io obbietterei che sono infinite le case delle quali sono stato ospite, e nelle quali gli oggetti e le suppellettili, i mobili stessi, si sono semplicemente affastellati e coabitano così, senza riflettere alcuna personalità, acquistati e scelti in base alla moda, al loro valore venale, all’idea di arredamento fornita da un arredatore, o più normalmente secondo le possibilità economiche combinate con lo stereotipo di ambiente fornito dal catalogo di una fabbrica di mobili. Certo, io e Roberta non siamo i soli, e le case di molti nostri amici presentano la stessa stratificazione esistenziale che la nostra mansarda rivela: abbiamo una casa che non è stata arredata, semplicemente è cresciuta con noi, che ne abbiamo scovato i pezzi nei mercatini di cose e di mobili usati, oggetti con un vissuto, una storia. Dentro casa hanno trovato spazi risicati, preziosi anfratti nei quali riposare e custodire negli anni i suoi quaderni di scuola, i miei appunti, le nostre fotografie, i colorati, importabili e bellissimi calzettoni di lana e le sciarpe che nonna Maria ha sferruzzato per noi,  che da giovani andavamo in montagna. Un vecchio e piccolo scrittoio sul quale per anni ho scritto canzoni, un incongruo buffet trovato per quattro soldi in un magazzino e che ha sostituito una ancor più vecchia credenza malandata e bellissima, andata a fuoco anni fa in un incendio che distrusse la cucina, e ancora uno strano mobiletto dalla funzione misteriosa, ma del quale non ci disferemo mai, perché restaurato per noi dal papà di Roberta; cose con una storia da raccontare, e che sono venute a raccontarla in casa nostra. Ci seguiranno anche nella nuova, forse faticheranno un poco ad ambientarsi, come dovrà fare la piccola cristalliera liberty, destinata a contenere cianfrusaglie in cerca di alloggio e a cedere calici e dolciumi al contenitore che prenderà il suo posto nel soggiorno/studio/sala da pranzo, e chissà come finiremo per chiamare quello stanzone, e questo solo  perché per ragioni logistiche sarà costretta a stare in anticamera a dialogare con una libreria metallica: se ne farà una ragione. Così come mi farò una ragione io della sparizione del Duomo, della Torre Velasca e del Monte Rosa dal mio orizzonte di vecchie case, e dell’angolo di tetto spiovente al riparo del quale ho scritto buona parte dei miei libri. E Roberta si dovrà abituare all’assenza di alcune delle sue amatissime piante che ora riempiono i terrazzini, e le superstiti dovranno a loro volta rassegnarsi ad abitare uno stretto e lungo balcone. Dovrà abituarsi a scrivere anche lei in un ambiente diverso, ma le basterà alzare gli occhi per ritrovare i suoi libri, una vecchia fotografia dei Beatles, e la sua mano troverà senza esitazione il cassetto dello scrittoio: ci serviva più spazio, per averlo abbiamo dovuto traslocare. Qui arriva la fiducia a sistemare le cose, perché basta non gettare via nulla del nostro passato, nulla che, nella nuova casa, sia disposto come noi a ricostruire il proprio spazio, a ritrovare la sua funzione, così come faranno alcune parti del vecchio arredamento originale, che abbiamo chiamato a svolgere la loro parte in un tutto, a integrarsi, a farci sentire nuovamente a casa nostra. Basterà guardare con attenzione dalle grandi finestre luminose: gente nuova, nuovi colori di pelle e di foglie, voci nuove e botteghe nuove da scoprire e nuovi angoli di strade da svoltare per conoscere. Vedremo ancora di che raccontare, chiacchierare, scrivere. La casa è bella, e per volerle bene sarà sufficiente smettere di rimuginare sul trave della vecchia mansarda: accoglierà noi, i nostri nuovi amici che ci hanno aiutato a sistemarla quasi fosse la loro, ospiterà le nostre cose fedeli, così, come faceva il guscio che stiamo lasciando. Vivremo e faremo, saremo ancora noi, anche lì: prendiamoci il tempo che serve, le case hanno molta pazienza, e capiscono molte più cose di quanto pensiamo.