XXI^
10/11/2014

Forse sarò costretto a cambiare casa, ed è veramente l’ultima cosa che vorrei fare, a questo punto della vita. Per una serie di ragioni, solo in parte dipendenti dalla mia volontà, ho sempre abitato in vecchie case simpatiche…

continua

Forse sarò costretto a cambiare casa, ed è veramente l’ultima cosa che vorrei fare, a questo punto della vita. Per una serie di ragioni, solo in parte dipendenti dalla mia volontà, ho sempre abitato in vecchie case simpatiche, stabili dalle dimensioni accettabili, ragionevoli direi: nulla di enorme, ma nemmeno di mono o bifamiliare. Così ho cominciato a guardare più da vicino, con maggiore attenzione, i quartieri cresciuti dentro e intorno alla città dagli anni cinquanta sessanta in poi. Quel mondo di falansteri periferici ordinati come falangi mi ha provocato un senso d’inquietudine, direi addirittura di panico. La diffidenza, l’estraneità che ho sempre istintivamente sentito per quei luoghi tanto simili l’uno all’altro, ha come cambiato carattere, nell’ipotesi di doverci abitare. Erano destinati il più delle volte ad accogliere appunto le falangi di deportati dalle regioni più povere del paese, di cui l’industria si serviva perché il mercato poi se ne nutrisse, e con esso la città, ad essi estranea e chiusa nelle sue vecchie circonvallazioni come un tempo nelle mura spagnole. Rispondevano a criteri di economia costruttiva e gestionale già collaudati in tutte le grandi e meno grandi città, nella ricostruzione seguita allo tsunami della guerra. Tristi, nel loro anonimato stilistico, quanto nell’anonimato umano al quale era condannato chi era destinato a viverci. Sono poi nati nel tempo altri agglomerati, più curati nell’aspetto, meno spartani quando non addirittura pretenziosi, circondati da ampi spazi verdi, ma concettualmente simili, e quanto i primi parimenti estranei alla città. In questi giorni sono andato a vederne da vicino qualcuno: mi ha preso un gran senso di spaesamento, fattosi davvero pesante al solo pensiero di dover vivere lì. E’ probabile che chi ci è cresciuto mi accusi di snobismo, ma io so che il mio disagio ha radici molto meno banali. Chi è cresciuto in uno di quei quartieri ha inevitabilmente parametri culturali diversi dai miei: non peggiori o migliori, ma diversi, questo sì. Mi ha colto come un pugno nello stomaco la consapevolezza che quei venti palazzoni da cento famiglie l’uno, cioè un intero paese di più di cinquemila abitanti, fino a una certa data era solo un cantiere, e che nel volgere di sei mesi era stato riempito di persone venute da una quantità di posti, uno diverso dall’altro: estranei i luoghi, le persone, la destinazione. Un intero paesone sorto dal nulla, privo di radici e popolato da sconosciuti dalle radici recise e conficcate nei ricordi e nei costumi di vita, difficili da estirpare. E che poi in questo posto inventato sono nati uomini e donne che non sono cresciuti accanto al fornaio e al salumiere, non hanno portato scarpe a risuolare dal calzolaio, ma hanno conosciuto il supermercato prima che lo conoscessimo noi, qui in città. Qui in città, perché quei quartieri, che gli immobiliaristi mi indicano ora come mia prossima casa a Milano, sono altri luoghi. Quelli che hanno avuto la fortuna di essere abitati da persone culturalmente vive, direi meglio strutturate come comunità dalla vita di fabbrica, dal lavoro, si sono costruiti una loro società come parallela a quella della città più antica e ricca, così come un tempo erano in qualche modo paralleli i rioni, l’uno all’altro, vicini e separati, diversi. Questi i vecchi quartieri periferici operai. Mentre in quelli più recenti, più belli, si creano nuclei di conoscenze solo attraverso il campo da tennis o la piscina, oppure attraverso l’ufficio, la professione, la scuola dei figli, la palestra, l’asilo: nessuna appartenenza, nessun cemento sociale vero. Solo l’onnipresente centro commerciale. In verticale uguali all’oceano di villette a schiera che sta divorando il territorio intorno a paesi e città: fabbriche di solitudini ed egoismi travestite da privacy, status sociale. Collegati tra loro da quelle curiose scatolette di solitudine che sono le automobili, quando diventano l’unico modo possibile per spostarsi da una solitudine all’altra. Speriamo di poter continuare a vivere nella nostra mansardina nel vecchio quartiere storico, lo speriamo davvero. Non siamo mentalmente attrezzati per vivere in un deserto chiamandolo privacy.