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3/11/2014

Traffico insolito, sulla strada solitamente deserta che percorro per tornare a Milano. Roberta mi fa notare che il 2 di novembre è il Giorno dei Morti, e che questa è la ragione del viavai inconsueto: la visita ai defunti….

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Traffico insolito, sulla strada solitamente deserta che percorro per tornare a Milano. Roberta mi fa notare che il 2 di novembre è il Giorno dei Morti, e che questa è la ragione del viavai inconsueto: la visita ai defunti da parte di un popolo che ha motorizzato anche i pellegrinaggi e i riti. Una volta si vedevano file di persone, con il “vestito della festa” e mazzi di fiori in mano, camminare lungo le strade polverose che dal paese dei vivi conducevano a quello dei morti, per la visita usuale e dovuta. Dal Monte Penice la 412 scende nella piana e raggiunge Milano attraversando molti paesi. Una Strada Statale che ha conservato le caratteristiche di una Provinciale d’altri tempi, una fettuccia grigia d’asfalto che solca campi e risaie. A ogni paese corrisponde un camposanto, davanti a ogni camposanto giace alla rinfusa, o arriva e riparte, un campionario assortito di ogni modello di automobile esistente, tirato a lucido per l’occasione. Così, mentre guido lentamente nella coda che si muove tra i paesi e i rispettivi cimiteri, è naturale che io finisca per pensare al mio rapporto con la morte, con i defunti, con chi mi era caro e se n’è andato, con chi non c’è più ragione perché mi rimanga antipatico, o perché lo ricordi. Ho un’età tale da aver già dovuto salutare un buon numero di persone che hanno fatto o condiviso, nel bene e nel male, parte della mia vita. Quindi queste riflessioni si sono affacciate spesso. E, per quanto a volte suoni strano anche a me, mi rendo conto che non riesco a fare distinzione tra il corpo di un uomo e quello di un cane, di un gatto, di un cinghiale: la morte, ai miei occhi, pareggia davvero i conti. Non nel senso della livella di Totò, riservata agli appartenenti alla nostra specie, ma proprio in senso assoluto. Se mai dovessi investire un animale, so che straccerei la patente: lungo la strada, in mezzo o di lato, giacciono i resti malconci di esseri colpevoli solo di non avere ancora capito che il mondo è nostro, non di tutti, solo nostro. Cos’è un corpo? L’unica risposta che riesco a formulare e che mi convince è che il corpo in ultima analisi non è che un involucro, una scatola che si anima solo perché dentro ci siamo noi, l’Io che ci rende uno diverso dall’altro, che rende un soriano diverso da un altro soriano e un setter diverso da un altro setter. Non un setter diverso da un pointer, no, ma proprio quell’Io che rende diversi due animali apparentemente simili. Perciò, una volta che quell’Io per una ragione o per l’altra lascia la scatola, semplicemente la sorte di quella scatola non mi causa più nessuna emozione, se si esclude il rammarico della sparizione di un “aspetto” al quale ero abituato. Quindi non vado in un cimitero a trovare un morto, che si tratti di mio padre o del mio cane. Non sto dicendo che non mi procurerebbe emozione vedere la loro tomba, ma che me ne suscita una molto maggiore una fotografia. Mi emozionerebbe il ricordo di quell’Io che ha lasciato la scatola, ricordo che ritrovo più facilmente in un luogo, in un oggetto o in un pensiero comune, in un gusto che condividevamo, in qualcosa che la persona o l’animale mi hanno insegnato. E questo vale per mio padre e anche per il mio gatto. Inoltre non capisco tutto questo cerimoniale, quest’attenzione per un corpo defunto: sono anni e anni che mi vengono tagliati i capelli, che mi taglio le unghie, che perdo o aggiusto denti, che mi hanno tolto un pezzo d’intestino e la colecisti: non è che si sia fatto il funerale a quei frammenti di me, del mio corpo. Sono stati gettati, o inceneriti, senza che questo mi sembrasse strano: per tutta la vita ho buttato nella tazza del gabinetto dei pezzi di me, e questo sembra la cosa più naturale del mondo, che non fa rabbrividire per la paura, o per la vergogna; o per senso di colpa. E allora? Allora cosa dovrei andare a trovare? Apro la finestra del terrazzo di mezzo e l’Io del mio gatto è lì sulla ringhiera, ricordo che il mio amico Gabriele mi ha fatto una foto da qui, qualche anno prima di andarsene dalla sua scatola. Il loro Io è lì con me. Potrei chiamarla anche anima, ma poi si obbietterebbe che i miei mici Ino e Magia e Tutu, o i miei amici cani Baruch e Tito non ce l’avevano. E io invece so che non è vero: ce l’avevano, eccome!