VI^
18/8/2014

So di dire una sciocchezza, non certo per l’argomento, ma per il semplice fatto di pensare che possa avere un senso porsi qui queste domande.

Nessuna di queste bottiglie arriverà mai ai reali destinatari,…

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So di dire una sciocchezza, non certo per l’argomento, ma per il semplice fatto di pensare che possa avere un senso porsi qui queste domande. Nessuna di queste bottiglie arriverà mai ai reali destinatari, e se anche ci arrivasse finirebbe nel cestino della differenziata, tanto sono cose risapute e accantonate. Com’è d’altro canto velleitario sperare che un messaggio in bottiglia, lanciato in un mare come il web, nel quale galleggiano continenti di rottami maleodoranti, specchietti per allodole e pozioni del dottor Dulcamara, possa provocare qualche sussulto di coscienza. Resta il fatto che voglio parlare di sincerità, di quella alla quale dovrebbe sentirsi tenuto chi ci rappresenta. Fin dall’esaurirsi della immaginaria ricchezza prodotta dal boom economico nei lontani anni Sessanta, si sono succedute, a intervalli sempre più brevi, Le Crisi; ogni volta provocate altrove, vuoi da una guerra, vuoi dall’irrompere sul campo di gara di qualche milione di diseredati, se non dall’entrata in competizione dei loro paesi contro i nostri, direttamente. Noi viviamo ancora in un pezzo di mondo invidiabile, ma che si crede ormai povero, e che si sente travolto e minacciato persino dagli sbarchi dei profughi, senza che nessuno abbia il coraggio, soprattutto la sincerità di affacciarsi al balcone televisivo per dire a tutti noi come davvero stanno le cose, quali sono i veri pericoli che corriamo, che cosa dovremo rassegnarci a fare per continuare a vivere degnamente come esseri umani, insieme agli altri esseri umani. Bisognerebbe che qualcuno avesse il coraggio e la sincerità necessari per dire con chiarezza che non si esce dalla ormai cronica crisi di questo sistema economico senza una drastica riduzione degli sprechi che chiamiamo benessere, senza una radicale trasformazione dei consumi e delle abitudini di vita, e quindi di questo sistema. Siamo meno ricchi, non poveri, ma bisognerà che qualcuno dica  che è illusorio, stupido e cieco, pensare di ricominciare a costruire automobili e frigoriferi e spargere cemento ovunque, che non si può pretendere che siccome si sono laureati cinquemila ragazzi in ingegneria “spetti” loro un posto di lavoro come ingegnere, e che nessuno glielo può inventare: promettere sì, trovare davvero no. E quel qualcuno dovrà anche farsi carico di spiegare una volta per tutte che, per ogni mille espulsi dal mondo del lavoro oggi, forse e se va bene cento verranno riassorbiti dal mondo del lavoro domani, e a condizioni senza dubbio meno favorevoli di quelle attuali. Dovrebbe anche ammettere che la tanto venerata nuova tecnologia, essendo il punto più alto raggiunto dall’uomo nell’affrancare l’uomo dalla fatica e dal lavoro alienante, ha un senso e una dignità solo se serve a creare un mondo nel quale tutti lavorano meno continuando a guadagnare quanto serve a una vita degna, ma se viene impiegata solo per aumentare la produzione riducendo il personale e per mantenere e accrescere gli utili di paperoni, tecnocrati e multinazionali, produce solo disoccupati e disperazione. Chi fa battaglie di bandiera per salvare una fabbrica che produce cancro, chi amministra la sua cittadina a suon di licenze edilizie, chi trasforma il territorio in una pattumiera perché nell’immediato rende di più che coltivarlo, chi permette una università che si regge su poveri contrattisti pagati duemila euro l’anno, chi definisce quello pubblicitario un “settore produttivo”, chi continua a raccontarci la fola della televisione, di Google o di Skype “gratis”, chi contratta sugli esuberi di un’azienda realmente in crisi, chi infine si presenta dicendo “ghe pensi mi!”, in un qualsiasi dialetto, semplicemente è un farabutto e un approfittatore. Sta soltanto difendendo la sua piccola o grande rendita di posizione. In alternativa è un incapace ignorante, cinico e furbo, finito in un posto di potere. Non sono un economista, ma il cervello mi funziona ancora sufficientemente da capire che, se non ci si decide a tentare seriamente di impedire questo sperpero materiale e morale del pianeta, non esiste un futuro che non sia tragico. Se non si accetta la realtà, e cioè che il domani di tutti, affrontato così, sarà soltanto un susseguirsi di crisi sempre più profonde e allargate, e che l’unica possibilità di cui disponiamo è sedersi tutti a un tavolo, fare il conto di quanto c’è in dispensa e di quanto è dovuto a ogni essere umano; se non si capisce che è necessario ridurre ogni produzione superflua, e anche quella di esseri umani dannati fin dalla nascita, orientando le energie a produrre ciò che davvero serve per vivere tutti decentemente, non ne uscirà indenne nessuno, ricco o povero che sia: una banalissima, equa ridistribuzione, quindi. Purtroppo gli uomini tendono a comportarsi come se il loro orizzonte di vita coincidesse con quello del pianeta; chi detiene ricchezza e potere se li tiene: après moi le déluge! Socialismo, comunismo, anarchia, anche un approccio laico al cristianesimo: abbiamo attribuito a quelle idee responsabilità e colpe che erano solo degli uomini incaricati di renderle applicabili, e che le hanno tradite. E ora siamo qui, a parlare al mare.